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Mi sto ancorando a terra con questo mio peso
come se temessi di essere spazzata via da un uragano
Milano, lunedì 25 dicembre 2006 – Natale
“Qui si narra il segreto della rivelazione che Gesù fece parlando con Giuda Iscariota…” Così inizia la prima pagina di un fragile manoscritto in papiro che rilegge in modo radicalmente diverso la vicenda del "traditore" più odiato della storia e lo trasforma nel più fedele discepolo di Cristo; un documento straordinario che oltre a fornire inedite informazioni su Giuda lo riabilita presentandolo come colui che consegna Gesù alle autorità su richiesta dello stesso Cristo: il Vangelo di Giuda.
«Hai acceso tu la radio? Abbassala!»
Trito le zucchine, sciolgo il burro in una padella, aggiungo le zucchine tritate, faccio cuocere per una ventina di minuti. Lascio raffreddare, unisco le uova e la panna ma prima le amalgamo bene tra loro.
Sì, va beh, anche in questa ricetta c’è la panna. E come la mettiamo con i miei chili che si stanno moltiplicando in modo imbarazzante? Ma cosa mai devo sostenere io di così intenso in questo periodo? Mi sto ancorando a terra con questo mio peso come se temessi di essere spazzata via da un uragano.
Potrei provare con la panna di soia, forse è meglio del suo latte, non ha quell’orribile retrogusto. La salsa dolce di soia è un’altra cosa, quella sì che è buona, qualche volta ci condisco l’insalata. Ma c’è dentro lo sciroppo di zucchero e anche la melassa, troppe calorie.
Lascio stare, ora ritorno al pezzo che stavo scrivendo per il giornale: cerco di inquadrare gli sconvolgimenti del cosmo e dell’atmosfera, nei continenti e negli oceani della nostra Terra. Non è facile e per nulla chiaro. O forse potrei prima dedicarmi al mio racconto? Sì, incomincio da dove l’ho lasciato ieri. Ma dove mai l’avrò salvato? Possibile che non riesca ancora a mettere i file nelle cartelle giuste? Vorrà dire che continuo con il pezzo per il giornale, ho poco tempo ormai per la consegna.
E oggi è anche Natale. Ma è possibile che mi devo ridurre sempre all’ultimo?
Un file a lungo coccolato che si perde nel nulla di uno schermo e svanisce: lì ci sono le molecole del mio pensiero divenute parola, poi d’un tratto non ci sono più. Non riesco a ripescarle in quest’abisso a cristalli liquidi eppure esistono, hanno preso corpo e vivono in una dimensione che non vedo. Riuscirò a riafferrarle per ricordarmene?
Così è oggi ogni mio attimo: volto pagina, mossa da qualcosa d’impercettibile che mi porta fuori da me, lontana da quella me che sono stata fino a quell’istante e d’un tratto non so più quale colore avessero i miei pensieri, pochi istanti prima. Forse grigi, qualche volta rossi, quando provo rabbia verso di me, oppure verdi, quando mi vorrei tutta intera. Quando chiudo gli occhi e dico: ora mi sveglio e non ho più paura.
Mi chiamo Maria Luce ma preferisco Luce e da poco ho superato i quaranta. Vivo a Milano, città grigia e appiccicosa ma aperta sul mondo come la grande pancia di una balena: divora tutto quello che trova e poi se ne vanta. Ha cercato di divorare anche me ma sono rimasta incagliata tra i suoi baffi e da lì talvolta riesco a vedere il mare e la luce. La balena si è servita di un homeless me l’ha fatto incontrare verso la fine degli anni ottanta sotto casa, proprio mentre stavo andando a parcheggiare la mia automobile nel box.
«Fammi salire» ha urlato attraverso il mio finestrino semiaperto ma io ho fatto finta di niente. Non l’ho accolto nella mia macchina. Non lo conoscevo, era la prima volta che lo vedevo dalle mie parti.
Ma a Milano, si sa, non ci si conosce nemmeno tra vicini di pianerottolo. E poi non mi andava di farlo salire. Era già quasi buio, le goccioline di nebbia e di vapore si erano appiccicate su quel vetro semiaperto: mi guardava dal finestrino con gli occhietti un po’ chiusi e uno sguardo enigmatico. Avrei potuto chiedergli perché volesse salire sulla mia macchina ma in quell’attimo non seppi far altro che immaginarmi invisibile mentre me ne andavo senza rispondergli.
Mi ha inseguito correndo: quando ho spento il motore ho pensato che forse mi ero messa in un pasticcio, ma che senso aveva fare salire in macchina uno che non avevo mai visto? «Ciao» e credevo di cavarmela così, ma lui aveva un’altra idea. L’ho capito quando si è infilato nel box, ha aperto la portiera e si è seduto in macchina accanto a me, in silenzio, senza parlare. È rimasto immobile a fissare il tergicristalli, immobile come lui. Ho capito che era quello l’oggetto del suo totale interesse perché ha avvicinato la sua mano grossa e segnata dal tempo al finestrino e con voce atona mi ha chiesto: «Funziona solo quando piove?»
«No, anche se non piove.»
«Bene, allora aspettiamo qui che si metta a piovere.»
«Nel box? Qui non piove mai»
«Non è vero. Qualche volta succede»
In questi anni ho sempre cercato di tenere lontana da me quella sensazione di grande imbarazzo e quella paura che ha accompagnato solo un paio di pensieri, mentre desideravo fuggire: speriamo che qualcuno ci veda e speriamo che nessuno se ne accorga. Il primo pensiero fu per me, il secondo per lui o forse ancora per me. È vero che la donna violentata prova un profondo e insano senso di colpa. Era colpa mia, perché non l’avevo fatto salire sulla mia macchina. Ma cosa diavolo ci faceva da queste parti uno come lui?
«Stai attenta quando vai a mettere la macchina nel box, sai quante se ne leggono sul giornale?» certo, per mia madre è sempre una catastrofe, la vita: ad ogni angolo c’è una trappola, un pericolo.
«Va bene, mamma, ma secondo te cosa dovrei fare? Starmene chiusa in casa per evitare futuri e improbabili pericoli?»
E invece eccolo qui, l’improbabile e futuro si era fatto presente e certo. Ed ero io, allora, la prossima di cui si sarebbe letto sul giornale? O forse la vittima era questo pover’uomo che si era sentito rifiutato da me?
E poi ho urlato, anche se la mia voce usciva a stento. Non so se fosse la paura, la mia abitudine alla discrezione o la certezza che quell’anziano signore vestito di stracci non fosse lì per farmi del male ma soltanto perché lui una casa non ce l’aveva. E io sì. E avevo anche una macchina. Ho urlato e lui è scappato, traballante ma veloce.
«Che cosa è successo, signora?»
«Signora?»
Mi sono sposata molto presto e mi ha sempre fatto impressione che mi chiamassero così. Succedeva raramente e poi avevo poco più di venti anni. E lui mi chiama signora…
«È stato un barbone, voleva salire in macchina con me, io non l’ho ascoltato. Ha aperto lo sportello e mi si è seduto di fianco. Ma adesso dov’è andato?»
Tremante ma sorridente, con l’aria di chi sta bene e “non è successo niente” sono uscita dal box accompagnata dall’operaio dell’officina che aveva sentito le mie grida ed era venuto in mio aiuto.
«Bisogna fare una denuncia. Se vuole l’accompagno alla polizia,.»
«Lasci stare. Va bene così. Va tutto bene. E poi non mi ha fatto niente.»
Ho sempre tenuto nascosto quello che non andava bene, l’ho trangugiato tutto. “Va bene così, non importa” è stato per anni il mio motto. Ma forse avrei fatto bene a parlarne, almeno per non lasciare che il piccolo drago trangugiato crescesse dentro di me, diventando gigante.
Ho perduto l’abitudine alla gioia in quella stagione nebbiosa, chissà se è stato l’inizio della mia senescenza, oppure del mio battesimo alla vita. Dopo qualche mese, le mie prime crisi di panico e quel senso di soffocamento che mi portava spesso al Pronto Soccorso. Succede ancora, ma meno di frequente.
Il mio grande disagio d’oggi qualcuno lo chiama dono, chi mi sta curando dice che finalmente con questa mia malattia mi sto ricordando di esistere: io per ora sto solo tanto male, ma spero che questo assurdo dono sia sotto la mia ala e che non voli via insieme a quella parte di me che ancora non riesco a trattenere.
Forse accorgendomi di esistere ho smesso di vivere la mia onnipotenza, quella certezza che nulla potesse accadermi al di fuori della mia volontà: invece anch’io ho una mia fisicità soggetta alle leggi di tutti, sono destinata, inevitabilmente, ad abbandonare prima o poi questo mio corpo fisico. Mi ritenevo immortale? Ma quale adolescente non crede di esserlo? Ed io sono sempre rimasta un po’ adolescente dentro: non avevo ancora pensato alla fine. E con la triste consapevolezza di una mancata deità, arrivata a me attraverso un clochard che chiedeva solo soltanto di farsi un giro in macchina fino al box, si è inerpicata l’angoscia, impadronendosi di alcune funzioni vitali. Ho scelto la malattia.
Come il corpo, anche questa mia casa è infettata di nolontà: la sua mancanza di sintonia con quella parte di me che forse si sta risvegliando, pesa sul mio desiderio di amarla. È una casa estranea al mio animo, un involucro dalla vita autonoma che si autogestisce, indipendentemente da me.
E questo mio tavolo si riempie di fogli ammucchiati che non riesco a gettar via, che non posso più controllare, come i mille malesseri che mi assalgono mio malgrado.
«Butta via, non tenere le cose che non ti servono, fai un po’ di pulizia!» Mia madre non ha fatto altro che ripetermi parole così.
Quando scrivo per il giornale io stessa mi faccio portavoce del Feng Shui e confeziono servizi impeccabili sul “lasciar andare”.
Eppure sono incapace di buttare tra i rifiuti questi brandelli di vita, appunti e foglietti volanti che non mi appartengono più: sono la mia malattia che forse non c’è ma che si inventa ogni giorno di più il suo spazio nel mio cervello. Ed io non oso buttarla nell’immondizia perché ora so di esistere. Se il cumulo di malesseri che si insidia nella mia mente e poi si inabissa negli organi del mio corpo smettesse di esistere, che ne sarebbe di me?
Non è ancora tempo di fare pulizia su questo tavolo: lascio che mucchi di carta rendano tossico lo spazio nel quale vivo, questa mia casa che non amo, non sarà mia finché io non riprenderò possesso di me. Per ora mi limito a fare un’apparente temporanea pulizia per poche ore, perché mio marito, rientrando stasera, non mi tocchi le mie cose per togliere di mezzo il caos. Ma lo so che ritornerà quel caos: lascio che le cose vivano del loro respiro, io non ne sono più responsabile. Voglio essere responsabile soltanto del mio respiro. Inspiro, espiro, inspiro, espiro… Non è difficile, ma ogni volta che ci penso… Eccola la crisi, sta arrivando. E ora, come faccio? Con il pranzo di Natale a metà… e gli ospiti che tra non molto arriveranno.
2
Anche voi destinati alla terra?
fatemi un po’ vedere che succede laggiù
Altra Dimensione
Mi hanno detto che è ora di tornare. A me pare di essere un po’ indietro, non ho ancora scelto niente, le idee sono un po’ confuse, non so bene cosa sia meglio fare. Ho chiesto qualche suggerimento ma continuano a dirmi che non se ne parla nemmeno, che devo prendermi la mia responsabilità fino in fondo e che non mi resta che decidere in base al mio bilancio.
Sì, questo mi è chiaro, devo tornare giù e trasformare i bastoni tra le ruote in terreno fertile: credo che il mio ruolo sia anche quello di ricordare che non si può risolvere un problema con lo stesso modo di pensare che lo ha causato.
Delle mie vite non ricordo più nulla ma ho ben presente il giorno in cui sono tornato qui, dopo una delle esistenze più forti che probabilmente avessi mai vissuto: tutti mi guardavano con una strana ammirazione e anche un po’ di compassione.
«Ti stavano aspettando. Pare che tutti abbiano seguito con trepidazione ogni tuo gesto ed ogni parola.»
Era una donna dalla pelle color dell’ebano, la più bella che avessi mai visto. Ho capito dopo che in questa dimensione ad un certo punto i corpi terreni perdono i loro contorni, quando lo Spazio e il Tempo si dissolvono del tutto e l’illusione si smorza e poi svanisce. Io invece, non ricordavo più nulla di tutto il mio su e giù nel corso delle varie esistenze, credevo che quella nuova amica sarebbe stata una piacevole compagnia.
«Grazie, è stata dura ma ho sentito il Cielo accanto fino all’ultimo istante.»
Risposi così. Pensai che fosse strano ma la logica del Cielo e quella della Terra non vanno sempre nella stessa direzione. È vero, è stata dura, ma i bastoni tra le ruote sono stati preziosi per il mio Piano di Volo: altrimenti cosa mai avrei riscattato?
Ogni tanto mi arrivano ancora oggi questi flashback ma non li so collegare a nulla, non ricordo più la mia vecchia identità né che cosa abbia fatto, ma gli occhi di quella donna mi sono rimasti impressi.
Devo tornare giù, va bene, ma le variabili spazio-temporali mi spiazzano un po’.
Sul Tempo ho avuto già un’imbeccata, praticamente mi stanno gentilmente spedendo là dove si conta il Tempo, anche sullo Spazio non mi lasciano scelta, parlano della Terra, dicono che lì ho già fatto grandi cose e che devo tornarci perché l’opportunità che ha l’umanità in questi anni è unica. Ma a parte questo, posso fare come voglio, o meglio, non devo fare altro che entrare nel flusso degli eventi.
È strano, da quando mi hanno dato questa notizia e mi hanno preannunciato un nuovo compito, i colori nel Cielo sono cambiati e inizio a intravedere gli sguardi delle altre anime e ad avvertire dei flebili contorni.
Non posso parlare di corpo, sarebbe assurdo, ma c’è qualcosa di evanescente che si irradia intorno ad ogni luce.
«Che fate davanti a quel velo?» Lo spazio intorno a me si riempie di fiamme eccitate. «Stiamo sbirciando, dobbiamo scegliere dove andare. Anche tu?»
«Anche voi destinati alla Terra? Fatemi un po’ vedere che succede laggiù.»
Non è facile accettare di guardare, proprio ora che da tempo abbiamo imparato a distaccarci. All’inizio, tra una vita e l’altra, siamo sempre qui per nostalgia, rimpianti, rimorsi. Poi tutto questo passa e al di là del velo chi vuole più guardare? Quello che c’è qui è quanto di più desiderabile possa esserci. Ma quando ci tocca tornare, una bella rinfrescatina non fa male.
«E tu sai dove andrai?» Me lo chiede una luce violetta.
E se fosse proprio lei quella donna che non avevo mai più ritrovato? Strano pensiero, mi basta essere così, accanto al velo, perché la nostalgia dei ricordi mi venga a ripescare.
«Non so. Sono qui per farmi venire un’idea. E tu?»
Mentre glielo chiedo dico a me stesso che la ritroverò, che faremo un pezzetto di strada insieme in questa nuova vita che ci sta aspettando.
«Non ho idea ma mi piacerebbe venire con te.»
Ho la sensazione che mi sorrida, la sua luce ha una vibrazione nuova.
Ci avviciniamo e scostiamo leggermente il velo.
Siamo qui per scegliere dove andare e le infinite possibilità per un istante mi fanno girare la testa. È vero, basterebbe sintonizzarci dove vogliamo, immaginare fortemente di essere lì e probabilmente ci ritroveremmo subito nella località che abbiamo scelto, ma non siamo capaci di desiderare così intensamente qualcosa che appartiene all’altra dimensione, quella terrena. Abbiamo smesso di farlo.
E allora sbircio di là dal velo, e cerco brandelli di mondo che mi facciano desiderare di essere lì. Per oggi non provo nulla di speciale, mi ci abituerò pian piano. Ma ci sto bene qui, in questa postazione, è un’occasione per stare insieme, scambiare quattro chiacchiere con le altre Luci in attesa di farsi carne.
«Hanno chiamato anche te?»